La Cedu – Corte Europea dei diritti umani (o Corte di Strabsburgo) con la sentenza 10929/19, ha condannato nuovamente l’Italia per non aver protetto una donna e i suoi figli dalla violenza domestica. Lo Stato italiano dovrà risarcire la vittima con 32mila euro per i danni morali. I fatti accaduti a Scarperia (Firenze) risalgono al settembre del 2018. Un uomo uccise il figlio di 3 anni e ferì gravemente la moglie madre del piccolo, tutto avvenne davanti alla figlioletta maggiore di 7 anni.
Dopo il processo, che si concluse con una condanna dell’uomo a vent’anni di reclusione, la madre della giovane vittima fece ricorso alla Corte di Strasburgo per “mancata adozione da parte delle autorità italiane di misure preventive di fronte alle ricorrenti violenze domestiche culminate nel tentato omicidio della ricorrente da parte del suo partner e nell’assassinio del figlio” (violazione dell’art. 2 della Cedu) e per “discriminazione e fallimento sistemico indicativo di passività generalizzata nei confronti delle vittime di violenza domestica” (violazione dell’art. 14).
La Corte ha accolto il ricorso per la violazione dell’articolo 2 che tutela il diritto alla vita perchè la donna era stata vittima di ripetute violenze domestiche ma “nonostante il quadro giuridico italiano prevedesse misure legali adeguate e proporzionate al livello di rischio del caso che si è rivelato letale” non venne messa in atto nessuna misura cautelare o ordine di protezione per bloccare, allontanare, arrestare l’autore di violenza. La Procura di Firenze non ha riconosciuto la specificità e la gravità della situazione nonostante l’escalation della violenze, le minacce e la malattia mentale dell’uomo, e “fatte salve le proposte avanzate dai carabinieri, è venuta meno al dovere di effettuare una valutazione immediata del rischio”. Le autorità infatti avrebbero dovuto sapere che “esisteva un rischio reale e immediato per la vita della ricorrente e dei suoi figli, indipendentemente dal fatto che vi fosse stata o meno una denuncia o un qualsiasi cambiamento nella percezione del rischio da parte della vittima” ma non hanno usato “la dovuta diligenza”. Il ricorso per violazione dell’art. 14 è stato invece respinto perché nel ricorso “non sono stati dimostrate l’inerzia generale del sistema giudiziario nel fornire una protezione effettiva alle donne vittime di violenza domestica o la natura discriminatoria delle misure adottate dalle autorità italiane nei suoi confronti e non sono stati forniti dati statistici o osservazioni da parte di autorità non governative. I carabinieri hanno ripetutamente denunciato ai pubblici ministeri la situazione e avevano chiesto l’adozione di misure cautelari anche quando la donna aveva ritirato l’ultima denuncia. In considerazione dell’atteggiamento propositivo dei carabinieri, l’inerzia delle autorità, nel caso di specie, non può essere considerata come un fatto sistemico” che riguardi un intento discriminatorio.
Ancora una volta la Corte Europea dei diritti umani ha rilevato l’inadeguatezza dello Stato italiano nel tutelare le donne che denunciano violenze. Nel 2017 e nel 2021 l’Italia era stata condannata anche per discriminazione ovvero per la persistenza di stereotipi sessisti che avevano ostacolato il riconoscimento della violenza. Le condanne hanno riguardato il caso Talpis per il quale una donna venne ferita gravemente e il figlio ucciso e la sentenza della Corte d’Appello di Firenze che aveva motivato l’assoluzione di 6 uomini accusato di stupro per i comportamenti della vittima.