L’asfalto brilla per il ghiaccio. L’orologio digitale sul cruscotto segna le due e trentuno quando aumento la temperatura del riscaldamento auto. Fa freddo. Lungo il tragitto che sto percorrendo per arrivare al pronto soccorso non incrocio nemmeno un’auto. Ho sonno e sento qualche vertigine. Ho una certa età, è così che si suole e mi duole dire.
La notte la vita rallenta sulle strade e la violenza accelera nelle case, fra le pareti che dovrebbero custodire luoghi caldi, accoglienti, sicuri si consumano guerre. Le donne che subiscono violenza aspettano, presidiano, resistono e proteggono i figli aspettando il momento buono per andar via di casa. Temporeggiano fino a che un’aggressione più feroce del solito fa scattare il campanello d’allarme. Qualcosa è cambiato e lui si è fatto più violento e più determinato ed è allora che le donne chiamano il 113 oppure afferrano poche cose, prendono i figli per mano e scappano, approfittando dell’assenza del compagno. Anche l’anno scorso le donne hanno atteso il momento opportuno. Anche quest’anno lo faranno.
Le telefonate, gli incontri e l’accoglienza di donne africane, rumene, albanesi, marocchine, tunisine, cubane, peruviane, senegalesi si susseguono perchè la violenza non conosce astratti confini geografici disegnati arbitrariamente dagli umani e attraversa mondi, scorrendo su quella gabbia di ferro che sostiene tutte le società o quasi, del pianeta: il controllo sulle donne.
Era circa l’1 quando mi hanno chiamato i medici del pronto soccorso per parlarmi di una donna che era stata portata dalla polizia con due figli piccoli, ho chiesto di parlarle per presentarmi, spiegarle che cos’è un centro antiviolenza ma soprattutto per chiederle di cosa ha bisogno.
Sono partita da casa da circa venti minuti e giro intorno ad una rotatoria, una delle tante che ha sostituito gli incroci pericolosi e a quest’ora, nel silenzio della notte, penso ad una metafora: ci vorrebbero rotatorie per evitare che le donne attraversino incroci pericolosi con uomini che non riescono a vivere relazioni affettive, paritarie, costruttive, felici. Niente più speronamenti e strade tagliate.
Finalmente arrivo e posteggio l’auto nel parcheggio dell’ospedale poi attraverso le porte scorrevoli. Non c’è nessuno. Conosco la strada ma sono così assonnata che imbocco il corridoio sbagliato. Torno sui miei passi. Chiedo di Anna e mi indicano una stanza. È seduta su una sedia, alla sua destra in piedi, c’è il figlio di 16 anni e alla sua sinistra il figlio più piccolo che dorme su una brandina. Una cosa che ti taglia in due il cuore è lo sguardo arrabbiato e mortificato degli e delle adolescenti. Ai piccoli basta la presenza della madre ma ai più grandi no. Rivogliono le loro vite. A quell’età nessuno dovrebbe diventare un profugo in fuga dalla violenza. Chiedo di parlare da sola con Anna. Quando restiamo sole ci guardiamo per un lungo minuto negli occhi fino a che lei non comincia a raccontare ed è come se sapessi già tutto.
La valutazione del rischio è la cosa più difficile. Ha armi? Fa uso di droga o alcol? Ti ha minacciata? Ti controlla? Quante volte ti ha picchiata, sorella? Quante volte hai avuto paura? (E quante volte ne ho avuta io?). Pensi e temi di sbagliare qualcosa, di non prendere adeguate protezioni perché non sia rintracciata dove la stai portando. Hai paura che anche lei sottovaluti il rischio, che torni a casa, che accetti di incontrarlo.
Anna non teme solo il compagno, ha paura di un futuro che non vede. Ha un lavoro precario che tiene stretto tra le dita confidando che il datore di lavoro le rinnovi il contratto, ma lo stipendio non è sufficiente a mantenere sé stessa e i figli. Nella fuga dalla violenza è fallita una parte della sua vita, ci vorrà tempo e non sarà facile. La realtà è una pietra dura da digerire quando l’angoscia dell’incertezza morde le viscere e chiede certezza, sicurezza, di farla finita con la paura. La realtà è che la crisi economica sta spazzando via vite ma anche lavoro, redditi, prospettive di futuro, soprattutto per le donne. I tempi di permanenza delle donne nelle Case Rifugio sono aumentati spaventosamente negli ultimi anni e non puoi fare promesse ma dire le cose come stanno.
Anna come tante che la precedono e la seguiranno, fa un salto nel vuoto con fiducia o speranza. E fiducia e speranza non sono dei paracadute. Sa solo che non vuole più continuare a vivere nella violenza, soprattutto – dice- vuole che i suoi figli vivano sereni. È l’unica certezza che ha, mentre mi parla seduta in una stanza bianca e anonima di un ospedale con un bicchiere di the tra le mani.
Si va.
La lascio con valigie, figli e il regolamento della casa rifugio sul comodino della camera da letto. Tre letti in una stanza calda, silenziosa, sicura. “Ciao, torno domani. Ora riposate”. In poco più di due ore si è creata un’intesa profonda. Come è possibile che accada questo tra due sconosciute, una assonnata tirata giù dal letto dallo squillo del telefono e l’altra in fuga da casa, non lo so. Ma accade. Tutte le volte.
Mentre torno verso casa sono quasi le 5. Percorro la strada ancora deserta e cerco una filosofia di vita, qualche pillola consolatoria per far fronte al sonno e alla stanchezza. Penso a frammenti, poi accendo la radio e trovo un canale che tramette la musica di Ennio Morricone e scivolo a casa su quelle note.