Lo striscione rosso appoggiato sul muro di ingresso del tribunale di Ravenna, sotto alla scritta Palazzo di Giustizia, è stata l’immagine simbolo di una mattina, quella del 19 febbraio, che ha visto manifestare 300 persone contro la sentenza di assoluzione di due uomini accusati dello stupro di una giovane donna in stato di alterazione per alcol. Una lunga striscia di stoffa rossa ha legato le manifestanti e i manifestanti nella camminata partita da piazza del Popolo e arrivata in viale Randi, davanti al Tribunale.
Demetra donne in aiuto ha promosso l’iniziativa insieme alla Casa delle donne di Ravenna, Linea Rosa, Coordinamento regionale dell’Emilia-Romagna, Udi Ravenna, Donne in nero, Femminile Maschile Plurale Associazione Dalla parte dei minori, Non una di meno, rete delle donne Cgil, Una panchina per Elisa. In tutto hanno aderito una quarantina di associazioni.
La nostra associazione è scesa in piazza perché insieme agli altri centri antiviolenza della rete Dire, è impegnata contro la vittimizzazione secondaria delle donne. Un problema nei percorsi di uscita dalla violenza. L’origine della vittimizzazione è il non riconoscimento della violenza, spesso confusa con il conflitto, e anche la persistenza di stereotipi che influenzano il giudizio nelle aule dei Tribunali italiani fino a farlo diventare un pregiudizio. Non sono unicamente i centri antiviolenza, da sempre accanto alle donne, a denunciare il problema: nel 2017 la giudice Paola Di Nicola, oggi anche consigliera della Cassazione, ha affrontato il problema nel libro “La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio diventa più forte del giudizio” mentre il giudice Fabio Roia presidente vicario del Tribunale di Milano con una lunga esperienza in materia di maltrattamento, da sempre mette in evidenza le problematiche che le donne devono affrontare nei percorsi giudiziari.
Quali sono i pregiudizi? “Le donne mentono sempre”. “Le donne strumentalizzano le denunce di violenza per ottenere benefici”. “Se l’è cercata”. “Le donne usano il sesso per fare carriera”. “Ma tu com’eri vestita?”, la colpevolizzazione delle donne per le violenze e le offese ricevute e la deresponsabilizzazione degli autori di violenza è un’insidia che le vittime affrontano quando decidono di dire basta e chiedono aiuto rompendo il silenzio. Non sempre incontrano sguardi attenti e capacità di ascolto scevri da riserve e dubbi.
La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia nel 2017 per il caso Talpis e nel 2021 per la sentenza della Corte d’Appello della Fortezza da Basso, in quanto le istituzioni italiane non avevano rispettato i diritti di donne che avevano denunciato violenze. La stessa Corte ha poi espresso preoccupazione per l’elevato numero di archiviazioni che seguono denunce per stupri e maltrattamenti, frutto di indagini svolte senza accuratezza o di ritrattazioni delle stesse vittime che non trovano adeguato sostegno e rinunciano al processo, o ancora da pregiudizi e dalla confusione tra conflitto e violenza. La violenza psicologica che non deve essere sottovalutata perché precede molti femminicidi, difficilmente viene sanzionata nei tribunali.
La “Commissione parlamentare di inchiesta sul Femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere”, presieduta dalla senatrice Valeria Valente e anche la ricerca del Gruppo avvocate DiRe “Il non riconoscimento della violenza domestica nei tribunali civili e per i minorenni” hanno rivelato le connessioni tra una inadeguata formazione e specializzazione della magistratura inquirente e giudicante e la vittimizzazione secondaria delle donne.